Storytelling: “Il principe di Bel Air” e la legge dei 20 secondi

The Fresh Prince of bel Air, meglio conosciuto come il Principe di Bel Air in Italia, sitcom esilarante che ha visto l’esordio di Will Smith come attore, è una serie che ha accompagnato adolescenti e bambini degli anni ’90. La sigla è entrata negli annali, quasi leggenda. Non c’è ex ragazzino che, anche se non lo seguiva, non riesca a canticchiare la sua sigla “reppata”, incalzante colorata e divertente.

 

Quest’ultima ha due particolarità:

 

  1.  in 1 minuto e 46 secondi esatti il protagonista riassume la propria vita prima di arrivare a Bel Air;


  2. questa sigla è che è in grado di catturare l’attenzione dello spettatore in soli 15 secondi, sia nella versione originale che nell’adattamento italiano, rispettando la regola non scritta dei 20 secondi, secondo la quale decidiamo di proseguire a leggere, ascoltare o vedere qualcosa entro i primi 20 secondi di lettura/ascolto/visione. Ed il Principe di Bel Air rispetta appieno la regola

Non ci credete? Guardatela, e per chi la conosce bene, cercate di svuotare la mente e di vederla come se fosse la prima volta.

 

 

Will Smith nei soli primi 5 secondi della sigla ci viene presentato così: un tipo strambo, che se la tira, seduto su un trono rotante talmente pacchiano che quello di Uomini e Donne può accompagnare solo, sul muro bianco dietro di lui graffiti a tutto spiano, poi in dissolvenza appare il titolo della serie, scritto in un font posato con in mezzo un bel graffito verde evidenziatore che ci dice chi è quel tipo seduto: The Fresh Prince of Bel Air.

In cinque secondi ci hanno fatto già capire chi è: un ragazzo afroamericano cresciuto nei bassi fondi di qualche città che può esser diventato solo due cose: o un rapper famoso (data la base musicale che lo accompagna), oppure la vita gli ha comunque dato qualcosa di meglio. E poi sorpresa, comincia lui a cantare, con il ritmo tipico del rap anni ’90.

 

“Ehi, questa è la maxi storia di come la mia vita è cambiata, capovolta, sottosopra sia finita.
Seduto su due piedi, qui con te, ti parlerò di Willy super fico di Bel Air”

 

Se nei primi 5 secondi ci aveva destato curiosità in soli 10 secondi cantando quattro strofe ha catturato la nostra attenzione.

In pochissime parole ci fornisce informazioni importanti che ci catturano, un prologo della maxi storia che interpretiamo subito come una storia strabiliante, qualcosa nella sua vita è cambiata per il meglio, ma non sappiamo come. Però ce lo sta per raccontare e sappiamo ora anche come si chiama, Willy, ma soprattutto dove è “finito” a vivere. Los Angeles, Bel Air nota zona residenziale di ricconi e personaggi famosi. Avendo catturato l’attenzione dello spettatore può cominciare a raccontare anche solo con le immagini, lo spettatore lo seguirà, starà a sentire e a vedere quello che lui vuole raccontare.

 

Ma anche il resto del video merita un' analisi:

 

Dal trono di lusso veniamo catapultati in un flashback della sua vita precedente, in una scenetta da cinema muto, come ci hanno fatto intuire pochi secondi prima, il nostro protagonista viveva nei bassi fondi della città in cui viveva, che scopriamo essere Philadelphia Ovest dalla versione originale della sigla. Era un graffitaro, lo vediamo venir bacchettato da un poliziotto con un gesto molto semplice e riconosciuto a livello universale, brandendo un manganello e agitandolo contro di lui; il nostro protagonista colto in flagrante si fa beffa del poliziotto utilizzando la bomboletta spray come un deodorante e con uno sguardo da “io sono innocente”, nonostante l’avesse appena utilizzata per scrivere su un muro (già pieno di graffiti) una bella e grande “F” azzurra, come la camicia del poliziotto. E il nostro cervello ci dice subito per cosa sta quella F e a chi è indirizzata (F**k the police); a livello inconscio da questa scena abbiamo capito molto di più su chi è il protagonista, un bravo ragazzo che si atteggia da mascalzone.

 

Dopo di questa scena, il racconto della storia rap comincia. Si descrive, dice dove e come viveva, lo ritroviamo a giocare in un campo di basket di periferia assieme agli amici, e la sua vita era tutta lì. Ma come in ogni storia che si rispetti, avviene un qualcosa che cambia tutto, rispettando appieno la scaletta classica del racconto (inizio con contestualizzazione, parte centrale con causa del cambiamento, aiutante, viaggio dell’eroe, conclusione).

 

Vediamo che il tiro a canestro non va a buon fine e finisce contro una gang che riconosciamo immediatamente come cattivi perché rispecchiavano il classico cliché delle bande afroamericane dell’epoca: tutta la gang vestita di nero (che a livello inconscio ha un accezione negativa), catenacci d’oro e mega stereo portatile. Non appena la palla li tocca appena, si alzano dalla loro panca e circondano il protagonista, prendendolo e facendolo letteralmente roteare. E poi compare la  mamma in soccorso al figlio, esattamente come “l’aiutante magico” delle fiabe, che aiuta il protagonista a scappare dal pericolo, preoccupatissima per le sorti del suo pargolo, si affretta a preparargli una valigia e dargli un biglietto per mandarlo dallo zio, mentre quest’ultimo la guarda svogliato e contrariato ma poi si rassegna a partire, non sapendo nemmeno dove stava per andare.

 

Stacco, vediamo il protagonista in un aereo dai colori scuri che rimarca il punto della scaletta del viaggio, avendo un accezione quasi di tunnel o punto di passaggio, viaggia come uno sceicco e si sente nell’aria l’odore del lusso. Nasce così la curiosità sia nel protagonista che in noi di scoprire dove andrà a finire intuendo che vivrà nettamente meglio di come viveva prima. Lo vediamo chiamare un taxi col fischio con sfondo la famosissima gigantografia della scritta Hollywood sul monte Lee; i colori sono cambiati, la collina verde, il cielo azzurro, il suo abbigliamento stravagante verde fosforescente ed il taxi giallo ci trasmettono positività.

 

E poi il finale del racconto, che cattura totalmente la nostra attenzione, l’entrata nella villa in taxi, lui sbalordito affacciato al finestrino con in mano una macchina fotografica come se fosse un semplice turista. Ci viene mostrato ciò che lo stupisce tanto, la villa degli zii stile Casa Bianca con inquadratura dal basso per rimarcarne l’imponenza, la maestosità ed il lusso. Infine Will Smith che bussa all’uscio di casa tutto gasato ma non ci viene mostrato se gli aprono o meno con una dissolvenza in nero, preparandosi a raccontare la sua vita a Bel Air. Con questo finale hanno colto l’attenzione dello spettatore come all’inizio, adesso lo spettatore vuole quanto meno vedere come comincia l’episodio numero uno per vedere cosa succede dopo. Ovvero Will Smith che bussa alla porta di casa in stile We Will Rock You dei Queen.

La sola sigla ha saputo catturare la nostra attenzione, ci ha raccontato una storia interessante e non banale, e ci ha fornito delle informazioni che andremo a riutilizzare, ovvero, parlarne con gli amici.
E’ una sigla che ha fatto storia, ha fatto parlare di se e fa parte della memoria collettiva di chi gli anni ’90 li ha vissuti.

Oggi farsi notare con i contenuti, raccontando una storia, che sia aziendale o personale, è molto più difficile perché siamo invasi tutti i giorni da centinaia di migliaia di storie. Bisogna saperle raccontare, ma soprattutto bisogna avere una buona storia. Ma come si fa? Lo scoprirete nel mio prossimo articolo!

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